RISCOPRIRSI COMUNITA’ NELL’EPOCA DEL CORONAVIRUS
Uno sguardo attento alla nostra realtà, in un tempo di incertezze e cambiamenti, vista con gli occhi dell’Educatore, figura professionale che con “mente, cuore e mani”, coglie ed evidenzia aspetti e sfumature che invitano ad una seria e profonda riflessione sull’uomo del “nostro tempo”
In questo tempo così complesso e nuovo, imprevisto ed imprevedibile, molteplici sono state le sensazioni e le emozioni che si sono susseguite ed intrecciate, inondando la mente alla ricerca di spiegazioni razionali, coinvolgendo il cuore, cioè quella parte della nostra mente legata alle emozioni, ai desideri, alle speranze ed ai sogni, spingendo la nostre mani all’azione, a quell’attività che permette di percepirci “vivi” ed agenti nella e sulla realtà e, in assenza della quale, verrebbe meno il protagonismo che ci contraddistingue come elemento specifico del nostro “essere umani”. Come un’istantanea, il “dover restare a casa” ha immortalato questo tempo, anche nella realtà delle nostre isole, un microcosmo che se da una parte ci ha tenuti al riparo dal rischio contagio, almeno fino ad ora, dall’altro ci ha fatto sperimentare un doppio “isolamento”, esterno ed interno alla nostra comunità. Ognuno è rimasto dov’era, interrompendo i ritmi della vita quotidiana: si sono fermate le attività, rallentati i trasporti, sospese le lezioni scolastiche in presenza; qualcuno ha trovato l‘illusione di un rifugio, qualcun altro invece è rimasto esposto per stato di necessità, perché impossibilitato a tirarsi indietro o semplicemente perché persino le proprie certezze erano diventate un luogo troppo distante da raggiungere. Nonostante ciò, seppur diverso e inaspettato, questo tempo è stato e resterà un tempo significativo che rimarrà indelebile nella nostra memoria. Difficilmente dimenticheremo le colazioni frettolose e frenetiche con i figli per prepararsi alle videoconferenze con gli insegnanti, trasformando le stanze della casa in piccoli studi televisivi dove mandare in scena una parvenza di normalità; le file fuori dai supermercati, fatte a volte, solo per il bisogno di sentirsi parte di un qualcosa di più grande o semplicemente per avere un motivo “valido” per lasciare le nostre case, piuttosto che per effettiva necessità. Noi eoliani, vivendo su un’isola, facciamo spesso i conti con la realtà del limite, del distanziamento forzato, quando nelle ventose giornate invernali rimaniamo impossibilitati a compiere qualsiasi spostamento verso la terraferma, probabilmente, anche per questo motivo siamo stati particolarmente bravi e ligi nel rispettare le regole anti contagio, stupendo persino i nostri amministratori e le forze dell’ordine. Isolani che hanno dovuto costituire essi stessi delle “monadi” o “bolle di sapone” circoscritte ai propri “congiunti”, in questo periodo in cui non si è potuto viaggiare, se non con la mente ma che, nonostante ciò, non hanno mai smesso di sentirsi parte di una comunità e di avvertire il bisogno di mantenere saldi i contatti, riscoprendo nella quotidianità rallentata quegli elementi fondanti del nostro vivere insieme, in società. Nei mesi del lockdown sono emersi, infatti, quei sentimenti di solidarietà e condivisione che sono insiti nell’essere umano, certo, spesso accompagnati alla paura, al senso di angoscia, all’incertezza per il futuro. Ed ecco che il tempo oscillava tra i canti sui balconi e l’attesa delle dirette del Presidente del Consiglio con gli ultimi aggiornamenti, tra le gare di generosità per aiutare chi avesse più bisogno e la corsa ad accaparrarsi le mascherine e generi di prima necessità. Nel riflettere su questo tempo, così particolare ed inedito, guardando spesso il mare che ci circonda e, in particolare, rivolgendo lo sguardo a quel limite apparente che è l’orizzonte che sovrasta il mare, ho potuto soffermarmi sull’importanza del limite. Ciò che ci limita al contempo ci consente di comprendere ed apprezzare la ricchezza di ciò che entro tale limite è racchiuso. Senza il limite, ad esempio, non esisterebbe il cerchio… Il voler andare oltre i limiti rischia di essere anche un qualcosa di fortemente pericoloso, nella mitologia questo ci viene ricordato con la figura di Icaro, il quale crede di poter raggiungere il sole con ali di cera o come quella colomba kantiana, la quale credeva di poter volare facendo a meno dell’aria: spesso siamo noi questi Icaro, che non ci fermiamo di fronte a nulla e crediamo di essere senza limiti, queste colombe che credono di poter confidare esclusivamente sulla propria ragione. E’ importante spingersi sempre oltre, ma mantenendo al contempo la consapevolezza del limite, consci di non poter avere sempre tutto sotto controllo. E’ vero abbiamo vissuto un’esperienza limitante, così come spesso è limitante vivere su queste isole, soprattutto per chi è giovane e guarda al mondo fuori come possibilità di autorealizzazione e di nuove opportunità, ma al tempo stesso abbiamo vissuto un’esperienza che ci ha offerto l’occasione di riscoprire ciò che è davvero importante, di rivalutare il senso della nostra vita. A noi sta saper cogliere questo senso profondo e, soprattutto, farne memoria… oppure tornare a soffermarci alla superficie, dimenticando che “l’essenziale, spesso, è invisibile agli occhi e non si può vedere che col cuore”.
Mente, cuore e mani: questa la strada che mi fu indicata quando decisi di intraprendere l’avventura del mio lavoro di educatore dal mio professore di Pedagogia della marginalità e devianza minorile, Francesco Gatto, il quale mi invitava a spostare il mio punto di attenzione principale dagli oggetti del reale alla relazione tra oggetti e soggetti, quindi tra le persone, nel loro ambiente di vita, e questo avrebbe permesso di aprire nuovi orizzonti alla possibilità e ai modi attraverso cui gli uomini conoscono, o meglio intenzionano, il mondo e le altre persone. In altre parole, la forma dell’Educare non può che essere la relazione; per dirla con le parole di un grande pedagogista del Novecento, Paulo Freire, “nessuno educa nessuno, nessuno si educa da solo, ma gli uomini si educano insieme con la mediazione del mondo”. Mai come in questo tempo, il venir meno di quelle “relazioni” per noi significative, ha messo in evidenza quanto siamo gli uni bisognosi degli altri, quanto il nostro destino è comune, quanto la nostre vite siano interdipendenti, quanto i nostri comportamenti si ripercuotano inevitabilmente su chi ci sta attorno e questo, chiama in causa, la nostra “responsabilità”. Siamo responsabili gli uni degli altri e gli uni per gli altri. Così, non ho potuto non richiamare alla mia memoria l’invito rivolto da Papa Francesco a chi si occupa di educazione e formazione, quando ha parlato delle tre lingue che una persona matura deve saper parlare: la lingua della mente, per pensare ciò che sentiamo, quella del cuore, per sentire bene ciò che pensiamo, e la lingua delle mani, per fare bene quello che pensiamo e sentiamo. Tre lingue che consentono una crescita armonica, non solo personale, ma anche e soprattutto sociale. Tre lingue che ci permettono di riscoprire quel desiderio e quel bisogno di essere “comunità”.